//Le rondini di Moccone. Memorie di un’infanzia in Calabria

Le rondini di Moccone. Memorie di un’infanzia in Calabria

15,90 

(13 recensioni dei clienti)

IL LIBRO

Siamo nella Calabria degli anni Trenta del Novecento, in pieno ventennio fascista. Orfano dalla nascita e cresciuto dai nonni materni, Gino ci porta in un mondo ormai scomparso, descritto sinteticamente attingendo dalla propria memoria. In un turbinio di vicende familiari e di vicini di casa, di vetturini e di ferrovieri, di compagni di scuola e di maestri, l’autore ci conduce alla scoperta di squarci di vita intima e sociale, tra descrizioni di giochi di strada, sfilate di balilla, preparazione di dolci tradizionali, amori e turbamenti giovanili: attimi di quotidianità recuperati dalla ragnatela dei ricordi e fissati sulla pagina con piglio neorealista. Il racconto è poetico e spiritoso, filtrato dallo sguardo di un ragazzino riservato cresciuto tra la protezione di una nonna affettuosa e il timore del nonno iracondo, tra i profumi della buona cucina calabrese e quelli dei boschi della Sila. Psicoanalitico nel descrivere emozioni, angosce e turbamenti, affettuoso e sognante nel ricordare momenti di dolcezza e di pace interiore, Gino si alza in volo scivolando sopra gli alberi della Sila per poi ritornare in picchiata verso terra quando, spietato e tagliente, castiga con ironia vizi e debolezze, meschinità e ipocrisie nei caratteri e nella società ma anche, impietosamente, in sé stesso.

L’AUTORE

Gino Sinatra

COD: 9788898703128 Categoria: Tag: ,

Descrizione

Nato nel 1925 a Corigliano Calabro, cresciuto a Cosenza fino al 1943, momento del passaggio agli studi universitari, e spostatosi poi definitivamente a Belluno dove ha vissuto dagli anni Cinquanta fino al 1992, Gino Sinatra ripercorre con il proprio diario la vita quotidiana negli anni dell’infanzia e della prima giovinezza, fino al Natale del 1942.

Dopo molti anni dalla sua scomparsa, le figlie hanno sentito il bisogno di redigere una versione ridotta di un più lungo racconto autobiografico – una selezione tra i tanti materiali rimasti – per ricordare e far rivivere il padre che, per anni, a cavallo dei decenni Settanta e Ottanta, hanno visto ore e ore al tavolino, davanti alla vecchia macchina per scrivere – un pacchetto verde di Nazionali accanto – riempire pagine e pagine di leggeri fogli gialli. Modesto e parco come un asceta – diceva di aver bisogno solo di una stecca di sigarette e di un chilo di pere – rifiutò sempre agi e lussi, considerando le risorse della mente e del cuore le uniche ricchezze a cui aspirare.
(dalla Nota finale)

Storie famigliari (p.28)

Del nonno, la notizia più lontana di cui dispongo è che egli fece il servizio militare in cavalleria, al tempo in cui anche i soldati semplici di quell’arma portavano al fianco una grossa sciabola, e che tale arnese il nonno mio ventenne ebbe occasione di provare addosso a un commilitone, mollandogli un paio di piattonate sulla schiena; ignoro i particolari dell’incidente, ma so che, nonostante l’encomiabile dimostrazione di autocontrollo che aveva fornito, evitando di usare l’arma dalla parte affilata, il focoso giovane fu costretto a trasferirsi in un altro luogo, troncando forse una promettente carriera.

Altra notizia di fonte attendibile è che sua madre, la mia bisnonna Filomena, fu negli anni fiorenti qualcosa di molto simile a ciò che si suole definire un’arpia; infatti, pare che picchiasse di santa ragione, prima e dopo i pasti, il consorte, bisnonno Gerardino, che non ho avuto il piacere di conoscere personalmente, ma che zio Marco, il quale fece in tempo a conoscerlo abbastanza, ricorda come il classico pezzo di pane.
[…]

Perdita della naturalezza (p.41)

C’è stata per tutti una prima volta in cui, per paura o per calcolo o per buona creanza, ci si è trattenuti dal fare ciò che si desiderava, ed è un peccato che quel momento sia così difficile, non dico riviverlo emozionalmente, ma anche solo ricordarlo; intanto, però, l’aver coscienza che un fatto del genere si è verificato, significherebbe già farsi una ragione di tante cose e sarebbe di non poco aiuto per liberarci di una parte di quei fantasmi e grilli vari che ci coviamo dentro; perché a quella prima volta, si capisce, ne sono succedute molte altre e ben altre, ma è stato in quel primo momento, ormai lontano nel tempo e, purtroppo, dalla memoria, che un impulso, un sentimento, un risentimento, che volevano uscir fuori, sono dovuti rimanere dentro, innaturalmente repressi, e il nostro equilibrio originario, la nostra pienezza di vita animale, sono scomparsi; e abbiamo dovuto cominciare ad essere uomini, cioè a tentare di contenere lo sbilanciamento, di riassestarci, di arrancare coi nostri mezzi, affinandoli con l’esercizio, per riconquistare l’equilibrio perduto, la semplicità, la naturalezza. Il tentativo ci rende agitati come prigionieri in gabbia; per questo, a parte ogni meta più eletta cui possiamo tendere, l’obiettivo più prossimo è quello di imparare ad agitarci il meno scompostamente possibile; ma compiti del genere sarebbero meno ardui, e il cammino meno accidentato, se potessimo illuminare col ricordo quell’istante ignoto, ma reale.
[…]
Edvige era figlia del sottocapo; abitava all’altra estremità del corridoio su cui si affacciavano gli alloggi di servizio e si giocava assieme in quel corridoio, con una tranvia gialla, di latta, i vetri dipinti e dipinte sui vetri le facce dei passeggeri; ma neanche la faccia di Edvige ricordo; s’è cancellata, come quella di Annina, ed è strano, dato cche eravamo proprio Edvige e io i due cpeccatori, colti in flagranza di gioco del dottore che fa la puntura; su la veste, giù le mutandine; una cosa brutta brutta, non si fa; ma perché? perché no e basta; uno scandalo dovette essere, e il trattamento severo, visto che il ricordo punge; ma una cosa dovette essermi subito chiara: che, al confronto, suonare la trombetta e far partire il treno era nulla. La scala dei valori si delineava.
[…]

Cosenza (p.56)

[…] per me Cosenza fu subito la città più bella del mondo, anzi, la “città” e basta; splendida m’apparve la radiosa mattina del 15 giugno di quell’anno, quando vi giunsi coi nonni la prima volta, e splendida continuai a trovarla fino a quando la lasciai, con rimpianto. Stipati su una carrozzella e aggrappati a ogni appiglio, facemmo, a lento trotto, il giro attorno alla chiesa del Carmine e al suo dirimpettaio di allora, il monumento a Bernardino Telesio; nell’uscire sulla piazza, appena arrivati, avevamo tutti perso la parola; quando a stento la ritrovammo, essa si rivelò così misera per esprimere quello che provavamo, che non valeva neanche la pena di usarla; chi esclamava Che bella chiesa, chi Che bel monumento, ma nessuno riusciva ad aggiungere altro; l’espressione dei volti, però, gli sguardi attoniti, le bocche semiaperte, erano certamente, come sempre sono, di un’eloquenza senza pari per schiettezza ed efficacia.

Consolette Supereterodine (p. 77)

ùMa se il cinema fu una nuova abitudine praticabile all’esterno, il primissimo, autentico segno della nuova opulenza, dentro casa, era stata la radio; non erano passati due mesi dall’arrivo a Cosenza che il nonno s’era fatto dono di una CGE RCA Consolette Supereterodine, parole che da bambini si imparano bene proprio perché sono incomprensibili e che poi non si dimenticano più per tutta la vita. Questa radio era un mobiletto elegante, alta circa un metro, che nella pancia aveva sette grosse valvole e davanti, al centro, una piccola nicchia, in cui si vedevano, illuminati da una lampadina interna, un ventaglio mobile e numerato e una freccetta rossa, che stava ferma; in aggiunta all’apparecchio, e senza sovrapprezzo, il venditore aveva fornito un portacenere col nome della sua ditta “Fratelli Caroselli, via Trieste, Cosenza”, un cartoncino con l’elenco di tutte le stazioni del mondo e una quantità di raccomandazioni per ottenere le migliori prestazioni dal portentoso aggeggio. Da quel cartoncino appresi strani nomi di città, che però potei cercare sull’atlante solo cinque anni dopo, quando, per le mie esigenze scolastiche, fu acquistato il primo atlante nella storia della famiglia. Anche il nonno scorse con interesse l’elenco e, entusiasta all’idea di poter ricevere Hilversum, Reykjavik, Aberdeen e altri posti che nessuno sapeva dove fossero, raccolse e attuò diligentemente, vuoi i consigli avuti dal venditore, vuoi quelli che giungevano da ogni parte, sicché la nuova divinità domestica fu oggetto di attenzioni come niente e nessuna prima. Per motivi di isolamento e di sicurezza, i piedi del mobile poggiarono non per terra, ma sui fondi di quattro bicchieri, non so se rotti appositamente; quanto al collegamento a terra, il filo, protetto da un tubo di gomma per tutta la sua lunghezza, dopo aver percorso il pavimento del salone lungo due lati, risaliva una parete fino alla finestra, usciva fuori e, seguendo il muro esterno, finiva in cortile, affondato, appunto, in terra; il cavo dell’antenna, anch’esso adeguatamente protetto, terminava in cima a un palo altissimo, distante una trentina di metri dalla casa, all’estremità del quale era stata assicurata un’asta di ferro che dominava ogni cosa; il tutto, installato espressamente, a cura e spese del nonno.
[…]

 

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